FIORENZO TOSO
Università di Sassari
Università di Saarbrücken

Qualche parola sulla manipolazione delle identità linguistiche

Ha avuto qualche eco sulla stampa locale, nei mesi scorsi, la notizia che il Consiglio Provinciale di Imperia ha approvato all’unanimità un ordine del giorno che ha visto come primo firmatario-proponente, il Vice Presidente del Consiglio Marco Bertaina. L’ordine del giorno si riferisce alla tutela in base alla L.N. 482/1999 del patrimonio linguistico di alcune località (Realdo e Verdeggia frazioni di Triora e Olivetta San Michele), per le quali le amministrazioni comunali, con l’avvallo di quella provinciale, hanno dichiarato in passato l’appartenenza storico-culturale alla minoranza linguistica cosiddetta "occitana" presente in Italia.

Spesso in Italia le decisioni politiche si sviluppano attraverso iniziative personali e volontaristiche, che si basano magari su ottime intenzioni ma per le quali sarebbe opportuno documentarsi e ricorrere, ove necessario, alla consulenza di esperti e di “tecnici” accreditati. In questo campo, i “tecnici” in questione sarebbero i linguisti, gli etno-antropologi, gli storici, che nessuno in Provincia ha pensato evidentemente di interpellare prima di accreditare un “si dice”, quello del carattere “occitano” del dialetto brigasco e di quello olivettese, totalmente privo di validità scientifica e di riscontri nella tradizione locale. Proprio in quanto linguista, e in quanto cittadino ligure sinceramente preoccupato per gli sviluppi futuri di questa iniziativa e per il destino del patrimonio linguistico regionale nel suo complesso, sento dunque il dovere civile e morale di intervenire brevemente sulla questione.

Va premesso che la L.N. 482/1999 in materia di minoranze linguistiche storiche è un provvedimento alquanto controverso, che ha raccolto critiche a svariati livelli, sia presso le istituzioni europee (ad esempio per l’esclusione di alcuni gruppi minoritari, come gli Zingari, dai provvedimenti di tutela), sia presso settori dell’opinione pubblica, sia presso in ambienti culturali, intellettuali e accademici, soprattutto tra i giuristi e i linguisti. Tra i diversi aspetti che hanno suscitato le motivate critiche degli ambienti scientifici e degli studiosi di scienze del linguaggio in particolare, vi è il criterio di determinazione delle aree suscettibili di tutela: esso si appoggia alla presunzione di un senso di appartenenza da parte delle popolazioni interessate, destinato a trovare conferma attraverso l’istituto del referendum (in realtà quasi mai attivato) o le delibere delle amministrazioni comunali dei comuni coinvolti (come si è verificato nel caso delle località dell’Imperiese). Mediante quest’ultima opzione in particolare – è questa l’obiezione dei linguisti delle principali associazioni nazionali e dei centri di ricerca internazionali (la Società Italiana di Glottologia e il Centro Internazionale sul Plurilinguismo tra gli altri) – si è aperta la strada a un utilizzo strumentale della legge da parte delle amministrazioni di comuni o di frazioni di comuni che, pur non appartenendo storicamente all’area abitata da gruppi linguistici minoritari, abbiano colto i possibili vantaggi economici e di “visibilità” offerti dalla dichiarazione di appartenenza dei loro concittadini a una delle dodici “minoranze” che (con criterio tutt’altro che obiettivo) sono state elencate all’art. 3 del provvedimento.

La singolare estensione dell’area linguistica ladina a gran parte della provincia di Belluno, il proliferare delle comunità albanofone in Italia Meridionale e di dialetto walser in Piemonte, e soprattutto l’indebita dilatazione dell’area “occitana” nel Piemonte occidentale sono gli esempi più significativi (e criticati) di un fenomeno di malcostume al quale non sono estranee, soprattutto nell’ultimo caso citato, motivazioni di ordine politico dai risvolti abbastanza inquietanti. Il caso assurdo della dichiarazione di “occitanità” da parte di comuni dalle solide tradizioni dialettali piemontesi quali Caraglio, Dronero o Borgo San Dalmazzo si spiega in particolare con l’attivismo di una militanza “culturale” che è riuscita a sopperire in tal modo all’esiguità della base demografica reale della minoranza, per acquisire potere di contrattazione politica nei confronti del centro torinese e romano: tale manovra è stata in certo qual modo “premiata” anche attraverso l’emarginazione di una parte significativa del movimento culturale delle valli cuneesi, quello che si professa (non senza solide motivazioni storico-culturali) “provenzale” invece che “occitano”, richiamandosi alla realtà dialettale concreta invece che all’affermazione del velleitario nazionalismo di impronta razzistica (la cosiddetta ideologia ethniste) divulgato negli anni Sessanta da François Fontan. Va chiarito del resto che anche in Francia il carattere univoco di una appartenenza “occitana” è assai controverso e tutt’altro che accolto a livello di opinione pubblica, di istituzioni e di riflessione scientifica: rispetto a un’“occitanità” priva di riscontri storico-culturali oggettivi, la Regione Provence-Alpes-Côte d’Azur ha preferito ad esempio, nel 2003, affermare il valore della specificità provenzale e nizzarda, e la perplessità di molti studiosi specialisti (come Philippe Blanchet per citare un nome soltanto) in merito alla inconsistenza di una “identità” linguistica occitana è ben nota agli addetti ai lavori.

In Liguria, la sconcertante dichiarazione di “occitanità” dei comuni di Triora (per le frazioni Realdo e Verdeggia) e Olivetta San Michele, sembra rivelare motivazioni analoghe a quelle che hanno portato all’adesione di diversi comuni di dialetto piemontese a una presunta appartenenza linguistica “occitana”, se è vero, come si legge sul numero 24 della rivista “A Vastera”, che un progetto interprovinciale di gestione dei fondi della 482, eterodiretto dalla Provincia di Torino, elargirà qualche briciola anche ad amministratori che non sembrano essersi fatto scrupolo di sovvertire e annientare, come ha chiarito benissimo l’amico Werner Forner sull’ultimo numero di “Le Stagioni di Triora”, un tradizionale “sentimento di prossimità al profitto di una lontana cultura trovadorica, distante e morta, di cui il nostro pashtuu non capisce un bel niente”. E’ evidente peraltro che chi – inseguendo, foss’anche in buona fede, i suoi personali fantasmi identitari – si assume la gravissima responsabilità storica di deprivare i propri compaesani del loro effettivo senso di appartenenza locale, finisce per mostrare un totale disinteresse nei confronti della realtà culturale e linguistica del territorio: eppure le proteste di qualche cittadino in merito all’“occitanizzazione” strisciante dell’alta Valle Argentina, apparse ancora di recente sugli organi di stampa, danno la misura di un malessere che nasce dalla difficoltà oggettiva, da parte di realdesi, verdeggiaschi e olivettesi, a riconoscere una qualche familiarità etnico-linguistica con gli abitanti di Béziers o un qualsivoglia interesse per i minestroni esoterici del neo-albigesismo.

Certo, gli argomenti a favore della presunta “occitanità” del brigasco e dell’olivettese sono a tal punto grotteschi, che arrivano a contraddirsi da soli: spulciando su internet capita persino di trovare la traduzione in brigasco di un brano provenzale che Dante attribuisce ad Arnaut Daniel, messa a confronto con l’originale, dalla quale si evince in maniera assolutamente lampante che il ligure alpino brigasco e il provenzale antico non hanno proprio nulla a che fare! Il fatto è che dimostrare una qualche affinità del brigasco coi dialetti provenzali invece che con quelli liguri è cosa impossibile; ma che altrettanto impossibile sembra riuscire a convincere chi, in buona o cattiva fede, si dichiara convinto del contrario.

Non so fino a che punto possa allora servire il ribadire per l’ennesima volta quale sia la posizione dei linguisti italiani e stranieri in merito alla classificazione del dialetto brigasco e di quello olivettese: nessuno studioso serio ha mai posto in discussione l’appartenenza di queste varietà al gruppo ligure alpino, e nessuno studioso serio ne ha mai proposto l’ipotetica appartenenza al tipo “occitano” o provenzale che dir si voglia. Da questo punto di vista vi è unanimità totale fra tutti i più accreditati ricercatori italiani (Giulia Petracco Sicardi, Emilio Azaretti ad esempio), tedeschi (il già citato Werner Forner) e francesi (Jean-Philippe Dalbera tra gli altri): non è questa la sede per fornire un lungo elenco di pubblicazioni scientifiche, ma sono disposto a fornire a richiesta, all’Amministrazione Provinciale o a chicchessia, la relativa bibliografia.

Non è affatto vero dunque che (come si legge sul n. 42 di “A Vastéra”, a p. 4) “eminenti studiosi, consulenti degli estensori della Legge 482/99” abbiano sancito l’appartenenza del brigasco “al gruppo delle minoranze linguistiche storiche occitane” (sic), anche perché purtroppo tale appartenenza, secondo gli sconsiderati criteri della legge stessa, può essere sancita soltanto da amministratori più o meno competenti in materia, alla faccia di centocinquant’anni di solida tradizione dialettologica e linguistica italiana. Se per assurdo poi il comune di Diano Marina o quello di Bordighera volessero dichiararsi appartenenti alla minoranza germanofona in Italia motivando tale decisione con la presenza storica e continuativa di turisti tedeschi (è successo qualcosa del genere in Campania), potrebbero farlo con altrettanta se non maggiore legittimità, certi che nessun “eminente studioso” verrà mai interpellato sull’argomento, né dall’Amministrazione Provinciale né tanto meno dal Governo Italiano.

Ma c’è di più: il carattere ligure delle parlate della Val Roia francese, compreso il brigasco, è accolto senza difficoltà da una pubblicazione ufficiale sulle Langues de France edita nel 2004 dal governo francese, a cura del linguista Bernard Cerquiglini. L’opera contiene monografie di studiosi specialisti di ciascuna area minoritaria, certamente più legittimati a discettare in materia che non l’unico (!) autore di una modesta pubblicazione divulgativa realizzata dal Ministero Italiano degli Interni, citata di recente da “A Vastéra” a riprova del presunto carattere “occitano” del brigasco: un’opera non certo destinata a entrare a far parte della bibliografia accreditata negli ambienti scientifici: e c’è da chiedersi allora come lo stesso dialetto brigasco possa essere dichiarato ufficialmente ligure in Francia e “occitano” in Italia!

E’ quindi assurdo che, come richiesto nell’ordine del giorno della Provincia di Imperia, il sindaco di La Brigue, il Presidente del Consiglio Generale des Alpes-Maritimes e il Presidente della Regione Provence-Alpes-Côte d’Azur debbano sentirsi impegnati “a unificare culturalmente il territorio occitano, facendo riconoscere come minoranza linguistica storica […] il Comune francese di La Brigue, secondo la normativa vigente, in stretto riferimento all’art. 14 della Carta Europea delle Lingue regionali o minoritarie, con l’obiettivo di concretizzare seri progetti trasfrontalieri”: tale riconoscimento di minorità esiste già di fatto da parte dello Stato francese, in riferimento alla parlata ligure di Briga, Tenda e di tutta la Val Roya francese, e in ogni caso la Regione Provence-Alpes-Côte d’Azur ha dichiarato da tempo la propria specificità provenzale e non occitana!

Riassumendo, che il dialetto brigasco e quello olivettese rientrino nel novero delle parlate liguri alpine è un fatto oggettivo alla luce del senso tradizionale di appartenenza linguistica delle popolazioni interessate (ma si è mai sentito qualche realdese definirsi “occitano”, prima degli interventi “disinteressati” di alcuni sconsiderati pseudoantropologi negli anni Ottanta?), della riflessione scientifica e, vorrei aggiungere, della stessa percezione degli ambienti provenzali meno coinvolti nel patetico etno-imperialismo tolosano: per i quali, come per tutto il resto del mondo, in Italia si parlano dialetti provenzali (o provenzaleggianti), solo nelle valli piemontesi dall’alta Susa alla Vermenagna, in secolare condizione di plurilinguismo accanto al piemontese, all’italiano e al francese.

“La pluralità linguistica e culturale” ha affermato secondo gli organi di stampa il Vice Presidente del Consiglio Provinciale Marco Bertaina “è un valore fondamentale, soprattutto quando la diversità culturale ha l’obiettivo di porsi come elemento di coesione sociale. Il voto unanime dei Consiglieri, ha dimostrato che su certi temi si può operare al di là di una logica di maggioranza e minoranza. E’ emersa la ferma volontà da parte di tutti di valorizzare un bene e una ricchezza culturale di cui vantarsi e che, in quanto patrimonio culturale comune, è da promuovere a ogni livello istituzionale”.

Se queste nobili affermazioni di principio riguardassero con ampia visione d’insieme un’ipotesi complessiva di tutela del patrimonio linguistico regionale, verso il quale le amministrazioni locali liguri sono da sempre inadempienti, ci sarebbe da essere lieti dell’attivismo dimostrato dal Consiglio Provinciale. Purtroppo però la manipolazione in atto della realtà linguistica delle Alpi Liguri, anche se consente in maniera alquanto discutibile l’accesso a qualche erogazione statale, va proprio in senso opposto a una promozione della “pluralità linguistica e culturale”, perché vorrebbe omologare a una realtà totalmente estranea varietà dialettali, come quella brigasca e quella olivettese, che rischiano adesso di troverarsi isolate rispetto al continuum linguistico nel quale sono tradizionalmente inserite. Questa sorta di apartheid nel quale si vorrebbero confinare quanti parlano il dialetto brigasco e l’olivettese è tutt’altra cosa, inoltre, che “un elemento di coesione sociale”, perché punta al contrario a creare differenziazioni antistoriche all’interno del patrimonio linguistico regionale (dal punto di vista scientifico è del tutto aberrante l’affermazione secondo la quale il brigasco sarebbe una “lingua” e il triorasco ad esempio, o l’onegliese, o il genovese stesso sarebbero “dialetti”) e a limitare la circolazione linguistica in nome di presunte “purezze” idiomatiche storicamente estranee alla realtà locale.

Personalmente ritengo che fenomeni di vero e proprio malcostume come il sovvertimento dell’identità linguistica e culturale di intere popolazioni vadano denunciati con forza, e sono comunque al corrente di diverse iniziative in merito, volte a tutelare i diritti di quanti, come gli abitanti di Realdo, Verdeggia e Olivetta San Michele, si sono visti affibbiare etichette “etniche” prive di motivazioni, e per di più “pesanti”, visto ad esempio lo storico legame esistente tra la recente “invenzione” dell’occitanismo (di una identità “occitana” non si era mai sentito parlare prima del Novecento) e il collaborazionismo di Vichy.

E’ lecito prevedere del resto che, una volta rivelatasi priva degli auspicati rientri turistico-promozionali che sembrano ad essa soggiacere, l’“occitanizzazione” dell’alta Valle Argentina (e dell’intera zona brigasca) si esaurisca in una matura presa di coscienza della realtà linguistica, etnografica e culturale dell’area, la cui originalità e la cui forte personalità non richiedono certo, per affermarsi, l’importazione di balletti cuneesi e bandierine tolosane. Ma resta intanto l’amarezza di fronte alle conseguenze di una legislazione retriva in flagrante conflitto col dettato costituzionale e con le indicazioni europee (si veda per tutte la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie), che, come ha ben dimostrato Tullio De Mauro, mentre ammette a tutela una parte soltanto del patrimonio linguistico storicamente presente in Italia (perché non si vede come e quando sia stato sancito, e perché, e da chi, che il dialetto provenzale sia più meritevole di tutela di quello ligure o di quello piemontese), consente assurdità palesi come quella perpetrata ai danni delle comunità liguri-alpine.

Penso che un impegno serio delle istituzioni e della società civile dovrà portare un domani al superamento della fallimentare L.N. 482/1999 e a considerare quale bene culturale e patrimonio comune, in una prospettiva salutarmente plurilingue, l’intero repertorio idiomatico tradizionalmente praticato in Italia; e ritengo che anche in Provincia di Imperia e in tutta la Liguria debba svilupparsi una presa di coscienza su questo tema di primaria importanza per la promozione della pluralità culturale di una società che sta vivendo una fase di grandi trasformazioni.

Sotto questo punto di vista la nostra Regione – pur disponendo degli strumenti giuridici per impostare una seria politica culturale in materia linguistica – è rimasta tremendamente indietro, ma non è certo attraverso la disinformazione e i travestitismi linguistico-culturali che si potrà sperare di dare impulso a un’opera di recupero e rivitalizzazione che si fa sempre più urgente: bisogna rendersi conto che avvallare, come è stato fatto dalla Provincia di Imperia l’appartenenza “occitana” dei dialetti di Realdo, Verdeggia ed Olivetta San Michele, arreca un danno pesante al restante patrimonio linguistico della Provincia e della Regione, e crea una discriminazione gravissima nei confronti dei diritti culturali e linguistici della popolazione della Provincia e della Regione nel suo insieme.

Sarebbe intanto una dimostrazione di buona fede e di sensibilità culturale se i sinceri sostenitori della cultura brigasca, invece di guardare a modelli estranei indotti da interessi di corto respiro, si impegnassero in una battaglia seria di salvaguardia di quella “prossimità” che, felicemente evocata da Werner Forner, rappresenta l’unico orizzonte coerente della storia e del vissuto quotidiano delle comunità che affermano di voler tutelare.