Ci vedevamo al bar Irene
Conobbi Francesco Biamonti allo storico bar Irene di Ventimiglia. Bar storico perché nella seconda metà degli anni
Sessanta era diventato il trafficato crocevia delle anime inquiete di quel tratto di terra che da Imperia va a Nizza. Studenti
liceali, universitari fuori corso, ex legionari pentiti, sindacalisti libertari, artisti trotzkisti, marxisti-leninisti in paraocchi,
ragazze algide e femmine assatanate.
Francesco, che pure quel locale frequentava, non faceva parte di quell'assortita tribù. Lui volava alto.
In quei tempi mi spostavo su un Benelli tremarce rossofuoco che mia nonna Bianca, dopo lassenso dei miei genitori, mi aveva
comprato per sessantatremilalire: «Così potrai tornare a mangiare a casa e ridiscendere per le lezioni di ginnastica
il pomeriggio». Grazie nonna. E grazie Benelli. Perché devo a quel motorino, che mi liberava dai rigidi orari delle
corriere, una libertà di movimento mai conosciuta prima che mi permise di intrecciare rapporti con personaggi fuori del
comune.
Fu una sera, seduti a un tavolo di quel bar che ebbi una prima lunga conversazione con Francesco. Ci conoscevamo già,
io avevo sentito parlare lui in discussioni collettive, lui aveva sentito parlare me, ma a tu per tu non ci eravamo mai trovati.
E largomento non fu la letteratura francese o gli impressionisti ma lagricoltura. Sentite. Che le mimose fanno i fiori
gialli lo sanno tutti. Daccordo cambia da varietà a varietà ma sapreste descrivermeli? Non credo, io no di
certo. Ebbene quella sera mi raccontò, proprio così, mi raccontò i colori, e io stetti muto e affascinato.
Per ore. Una magia. Mi raccontò anche di quel giallo che aveva usato non mi ricordo più quale pittore e che lui
voleva ottenere dalle sue mimose. E di tutti i concimi che stava sperimentando. Non so su quali seri fondamenti scientifici si
basassero le sue osservazioni e se quelle prove portarono mai a risultati concreti, ma non è questo il punto. Lui era un
esteta, non un contadino.
Ogni tanto si facevano dei viaggi, piccoli viaggi di qualche giorno per lo più in terra di Francia. Mete a casaccio, anzi
non mete, a zonzo, così tanto per muoversi, cambiare aria e panorama. Di rado partecipava perché i gruppi gli stavano
stretti e gli creavano impedimenti. Ma una volta venne anche lui. Arrivammo fino a Marsiglia e passammo lintera notte a
girare, osservare, parlottare. Al ritorno ci trovammo per caso assieme in macchina e attraversammo lEsterel. Era il mese
di luglio e quelle cicale ce lho ancora nella testa. Il caldo e la notte passata in bianco ci avevano reso tutti impazienti
di arrivare a casa per un bel bagno e un letto. Lui no. Lui era tranquillissimo. Ogni tanto si fermava e guardava quel tripudio
di macchia mediterranea in calore. Ma più che guardare contemplava. E noi sudati e incazzati che tiravamo cristi e madonne.
Solo molto dopo capii quel suo tempo. Era quello dei nostri avi, fatto del fluire semplice della vita, senza le follie di queste
corse quotidiane sempre più accelerate che ci tolgono il sapore del presente. Se allora qualcuno chiedeva: «E Francesco?»
la risposta immancabile era: «Sta scrivendo IL ROMANZO». Dentro di me, sinceramente, pensavo che quel libro non avrebbe
mai visto la luce. Eravamo attorno al 68, latmosfera era agitata e il mio sangue bollente. Come potevo concepire che
qualcuno stesse a limare in continuazione delle parole per raccontare una storia.
Poi lasciai la provincia e attraversai più metropoli e più avvenimenti che relegarono su uno sfondo offuscato le
terre natìe.
Quando un bel giorno in una libreria di Milano locchio mi cadde su un volume ed ebbi un tuffo al cuore. Era Langelo
di Avrigue di Francesco Biamonti. Correva il 1983 e quindi erano passati più o meno tre lustri. Lo presi e lessi
le prime cinquanta pagine lì in piedi, sbalordito. Certe volte unimmagine vale più di mille parole. In quel
caso stava succedendo il contrario. Mille immagini non mi avrebbero restituito la mia Liguria come stavano facendo in quel momento
le parole che Francesco aveva distillato in tutti quegli anni.
Altroché fotocolor. Era un capolavoro di quadro che mi scorreva sotto gli occhi, ogni tinta unemozione rivissuta,
ogni sfumatura un ricordo sepolto che riaffiorava allo stato di coscienza. Era lArte.
Aveva fatto bene a dire a suo padre quando gli aveva trovato un posto in banca e lui aveva resistito solo due ore al chiuso a
contare soldi: «Questo lavoro non fa per me» e se nera andato per la tormentata strada che lavrebbe portato
a ulivi pietrificati, muri sfasciati, coste dilaniate dai pescicani del cemento armato.
Poi vennero gli altri romanzi perché forse lalambicco era avviato, ma erano comunque sempre gocce che cadevano lente,
scarne e preziose gocce di poesia che scaturivano da una terra macerata dallabbandono. Ne erano lessenza antica e
ormai perduta.
Ciao Francesco
Alberto Cane
alberto@terraligure.it
da
LA
GAZZETTA DI SAN BIAGIO
ottobre 2002
articolo già pubblicato su La Gazzetta
di Isolabona nel dicembre 2001
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